Presentati.
Ciao
Stefania e grazie innanzitutto di avermi ospitato nel tuo bellissimo blog.
Elena Genero Santoro è innanzitutto una mamma che lavora e che si barcamena tra
mille impegni, tra figli, vita in ufficio e viaggi, principalmente di lavoro.
Ma è anche una persona che nonostante tutto il da fare non vuole perdere se
stessa e ha bisogno di alcuni spazi per ritrovarsi. Quindi per stare bene Elena
ha bisogno di una passeggiata nel verde con i suoi bambini, di una buona
lettura e di scrivere qualche bel paragrafo. Se riesce a realizzare ciò, torna
in equilibrio con tutto il creato e il resto passa in secondo piano.
Come è nata la passione per la
scrittura?
La passione per la scrittura
non è “nata”, c’è sempre stata. Scrivevo già dei racconti, che all’epoca chiamavo
romanzi, ma non sono così lunghi, alle scuole medie e durante il liceo. Quando
volevo starmene in pace con me stessa mi compravo un taccuino e ci davo dentro
– tutto a mano, sto parlando di venticinque anni fa. Poi è iniziata
l’università, in seguito l’attività lavorativa e ho avuto meno tempo (e meno
voglia) per coltivare le mie fantasie. Ma nonostante ciò ho sempre scritto, ho
sempre tenuto lunghi rapporti epistolari con amici in ogni parte del mondo, a
un certo punto ho aperto un blog e alla fine, in un periodo delicato della mia
vita, durante una gravidanza a rischio, per distrarmi mi sono rituffata nella
stesura di un romanzo: da allora non ho più smesso. Quando di recente ho
ripreso in mano i miei taccuini e ho riletto alcuni stralci, mi sono resa conto
che, anche se erano passati vent’anni, quella che scriveva, in fondo, era
sempre la stessa persona, solo un po’ cresciuta. Allora ho capito che in realtà
il filo non si era mai spezzato, che il mio primo amore non se n’era mai
andato, ma che aveva semplicemente aspettato a lungo e pazientemente che io
tornassi. E ho realizzato anche che io sono nata per scrivere, non nel senso
che necessariamente lo so fare bene, (saranno gli altri a giudicarmi), ma nel
senso che la scrittura è il mio modo più congeniale per comunicare e per dare
un senso ai miei ragionamenti.
Qual è il tuo stile?
Non so se quello che definisco
il mio stile abbia un nome, ma di solito descrivo quello che mi circonda e
anche la più parte delle location in cui ambiento le mie storie sono reali. I
miei personaggi vengono spesso definiti “della porta accanto” perché ricalcano
le persone con cui tutti noi possiamo trovarci ad avere a che fare. Per cui di
solito i miei romanzi sono dei mainstream, nei quali però non manca mai un
certo filone sentimentale, qualcuno che si innamora, qualcuno che vive i suoi
drammi personali. Peraltro l’approfondimento psicologico per me è
prioritario. Ma poi nel finale tendo al
sogno (altrimenti non scriverei romanzi, ma cronaca) . Con la scrittura tento
infatti di dare un senso alle cose, ma anche di fare accadere quanto di
positivo nella realtà non avviene.
Spazio abbastanza. Alterno
periodi in cui ho bisogno di leggerezza chick-lit ad altri più impegnati, in
cui mi delizio con i grandi autori, per lo più contemporanei. Ultimamente però
sto dando grande spazio ai colleghi emergenti e ho scoperto un mondo nuovo. Molte
persone amano scrivere e sono brave. Magari il risultato non è perfetto perché
dietro al romanzo non c’è la mano sicura di un editor che ha eliminato qualche
ingenuità o che ha fatto approfondire qualche paragrafo troppo veloce, ma
sicuramente il prodotto è più genuino e spesso interessante. Essendo
attualmente legata a due case editrici non a pagamento (0111 Edizioni e Lettere
Animate) ho conosciuto e avuto modo di confrontarmi con diversi colleghi,
appartenenti a una o all’altra se non a entrambe le scuderie. Nessuno (o quasi)
finora mi ha mai delusa.
Quale genere letterario non ti
piace?
Partiamo dal presupposto che se
un libro è ben scritto, si fa leggere bene, di qualunque cosa parli. C’era un
mio insegnante d’italiano, al liceo, che affermava: “Non importa cosa racconti,
ma come lo racconti. Per il resto puoi scrivere di qualunque cosa”. Sotto
un certo punto di vista gli do ragione.
A ben pensarci, al cinema non farebbero i remake dei vecchi film se non
pensassero di poter raccontare una storia già nota in un modo migliore (con più
effetti speciali, con un taglio più moderno, e quant’altro). Anche le fiabe già
conosciute e arcinote si possono rivisitare in modi più ricchi e articolati,
aggiungendo dettagli, particolari, digressioni. Mi viene in mente la Disney che
ha appena rifatto il film di Cenerentola. Ce n’era bisogno? Evidentemente sì,
se pensavano di guadagnarci sopra. Per cui mi fanno veramente ridere quelli che
con l’intento di stroncare un libro scrivono: il finale è scontato. Non tutti i
libri si leggono per sapere come va a finire (beh, alcuni sì, però), ma per
farci cullare dal suono di certe parole, per sognare con certe immagini. Che
dire dei romanzi rosa? Non lo vogliamo un bel finale rassicurante? Non
cerchiamo il “vissero felici e contenti”? (Nella più parte dei casi, per lo
meno). È inutile lamentarsi di un epilogo non sorprendente, la storia è sempre
quella, ma può essere raccontata con mille varianti che possono piacere o meno.
Quindi, per rispondere finalmente alla tua domanda, non c’è un genere che disdegno
a priori, se lo stile con cui è condotto m’incanta.
Come nascono le tue storie?
Nascono quando ho voglia di
evadere, di sognare, di immedesimarmi in una bella storia d’amore. Ma nascono
anche quando comincio a guardarmi intorno e quando sento di certi fatti realmente
accaduti o vengo a sapere cose che mi fanno arrabbiare. Allora comincio a
rimuginarci su e se sono proprio su di giri, inizio a scrivere, a fare un po’
di denuncia sociale, quando è il caso. Nel mio primo romanzo “Perché ne sono
innamorata”, parlo di amore a vent’anni, quindi la vena sentimentale è
parecchio sentita, ma anche di violenza contro le donne e di rapporti malati.
Oppure, nel sequel del libro appena citato, che si intitola “L’occasione di una
vita”, pubblicato con Lettere Animate, racconto il dramma di un aborto
spontaneo e la conseguente rottura di una relazione. Nello stesso romanzo però
prendo anche in giro la televisione spazzatura, che lucra sulle disgrazie dei
poveretti: quella proprio non la sopporto.
In genere ti immedesimi nei
tuoi personaggi?
Caspita, sì! Nel periodo in cui
scrivo qualcosa di nuovo non faccio che chiedermi: cosa può provare una donna
che nasce nel corpo di un uomo? Cosa può provare un condannato a morte, a pochi
giorni dall’esecuzione? Il gioco è quello di immedesimarsi, di vivere per
giorni e giorni con l’idea di essere io la persona incasinata in una certa
situazione. Credo che sia un po’ quello che fanno gli attori quando devono
recitare i loro ruoli: cambiano testa ed entrano nella pelle di qualcun altro.
Ed è così che si sviluppa il romanzo. Peraltro il transessuale e il condannato
a morte non sono due personaggi che ho citato per caso, ma sono due dei
protagonisti del mio libro “Un errore di gioventù”, in cui parlo proprio di un
ex transessuale e, soprattutto, della pena di morte negli Stati Uniti. Questo
romanzo nasce da un’esperienza epistolare di otto anni con un condannato che è
stato ucciso con iniezione letale nel febbraio 2010 e che mi ha segnata molto.
Ciò di cui io scrivo non è reale, ma nasce sulla falsariga di quella vicenda. Vorrei,
per quanto possibile, che la gente sapesse cosa realmente è la pena di morte.
Troppo spesso leggo sui social network commenti viscerali in cui le persone
invocano provvedimenti severi come la condanna capitale per cose decisamente
irrilevanti, senza dare un giusto peso alle cose. Ogni volta che ciò accade io
sto male. Da qui il mio romanzo, per comporre il quale, ovviamente, ho dovuto
unire il sentimento e l’immedesimazione a una rigorosa documentazione.
Come è nata la tua ultima
opera?
La mia ultima opera si intitola
“Gli Angeli del Bar di Fronte” ed è incentrato sull’immigrazione. Parla di un
clan di rumeni trapiantati a Torino, ma anche della “fuga dei cervelli”
laureati all’estero. L’idea è nata perché conosco molti rumeni e osservo le
loro difficoltà qui da noi, ma allo stesso tempo lavoro con persone di altre
nazioni e so come all’estero sono considerati gli italiani. Così ho dato vita a
una storia a due voci, le cui protagoniste sono un’italiana, Chiara, e una
rumena, Paula, che si destreggiano tra le mille difficoltà di chi qui in Italia
è senza lavoro e di chi fugge da una realtà ancora peggiore sperando di trovare
il Bengodi. Entrambe le protagoniste si trovano ad avere a che fare con un
gruppo di ragazzi rumeni dall’aria non molto affidabile di cui uno, Vic, è
particolarmente affascinante e ambiguo. Chi è realmente Vic si capisce verso la
fine; il finale è col botto. Nel libro non ci sono buoni o cattivi da una parte
sola e ho cercato di essere il più equa e più obiettiva possibile, per portare
avanti le ragioni di tutti.
Stai lavorando a qualche altro
libro?
Lavoro sempre a qualcosa ma per
scaramanzia non ne parlo mai! Inizio a farlo ad opera conclusa.
Il tuo sogno?
Potrei dirti “pubblicare con
una grande CE” o “vendere un botto di copie”, o “essere osannata come una
grandissima scrittrice e non ricevere più brutte recensioni”, ma non è questo.
Per carità, a chi non piacerebbe tutto ciò?, ma i miei sogni più importanti
riguardano la mia sfera privata e non li svelerò per paura che non si avverino.
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